Nell’ultimo anno abbiamo osservato, soprattutto dai mass media, numerose persone, specialmente nel periodo del lockdown, che dai loro balconi cantavano o sventolavano bandiere dell’Italia o lenzuoli con scritto “Andrà tutto bene”. CI siamo resi conto che il pericolo era davvero grande e che bisognava seguire scrupolosamente le nuove regole imposte dalla società e dalle leggi tra le quali l’isolamento. Successivamente i balconi si sono svuotati e da ogni dove sono iniziate a spuntare voci che dicevano che il coronavirus era semplicemente un complotto e che esortavano a non osservare tali regole imposte da chi aveva solo il suo interesse a farlo, i cosiddetti “poteri forti, salvo poi fare speditamente ed indecorosamente marcia indietro se contagiati. In passato le popolazioni mondiali erano più abituate a fronteggiare pandemie, epidemie che nemmeno erano in grado di riconoscere e per le quali nemmeno, probabilmente, erano attrezzate. Epidemie che falcidiavano i popoli che si difendevano come potevano. Spesso per sfuggire ai contagi alcuni cercavano, per quanto fosse possibile, una sorta di volontario “lockdown” (del resto nel Decamerone di Boccaccio 10 ragazzi si incontrano, nella Firenze devastata dalla peste del 1348 e, per sfuggire al contagio, decidono di abbandonare la città e trasferirsi in una casetta di campagna isolata e circondata dalla natura) o riempivano chiese per invocare la pietà divina mentre le autorità e la “scienza” limitavano il loro agire creando e gestendo lazzaretti, portando via i cadaveri. Ma in effetti, anche in passato vi sono stati i cosiddetti “negazionisti”. Mettere in dubbio l’esistenza delle malattie, come sta accadendo con la pandemia di Covid19, è infatti un fenomeno per nulla recente.

Nel 1599 i medici di Valladolid, in Spagna, nel bel mezzo di una epidemia di peste dichiararono “Per parlare con esattezza, non è la peste”“Si tratta di una malattia comune”“Si tratta di febbri persistenti, dolori al fianco, catarri e cose simili …  Alcuni hanno avuto dei bubboni, è vero, ma guariscono facilmente”.

Nel capitolo XXI dei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni, riferendosi alla epidemia di peste del 1630 cita così: “All’arrivo di quelle nuove … chi non vi crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a rendere ragione della mortalità; sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per così dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato.”

La febbre puerperale del 1752 colpiva tutte le donne che partorivano in ospedale. Il medico ungherese Ignàc Semmelweis sosteneva che si trattasse di una febbre causata dalle mani dei medici non accuratamente pulite ma non fu creduto e la colpa venne data alle donne che, giovanissime, portavano in grembo il seme della colpa.

Nel libro “Death, dissection and the destitude” di R. Richardson si afferma che “Ci furono rivolte e disordini associati al colera in molte delle principali città e paesi durante la primavera e l’estate del 1832. Nei primi disordini, i poveri dubitavano dell’esistenza della malattia, credendo che fosse un’invenzione dell’immaginazione delle autorità – progettata per consentire la coercizione dei poveri negli ospedali per l’uso in esperimenti di vivisezione, per la dissezione dopo la morte, o per tenere a freno la popolazione”. Le autorità consideravano il colera, che aveva colpito Parigi, come una punizione divina rivolta a chi violava le leggi non scritte della morale, quindi gli ubriaconi, i festaioli, gli “imprudenti” di entrambi i sessi, i licenziosi e gli intemperanti.

Il ministro Giolitti derubricò il colera in Calabria (1867) a poco più di una febbre (“una febbre di altro tipo”) ed alla quale non si doveva dare una grande importanza. Alla base di queste forme, anche se diverse tra loro, di negazionismo vi erano sicuramente preoccupazioni per l’ordine pubblico o per l’economia. Mettere una città in quarantena significava arrecare gravissimi danni quali il fallimento delle attività economiche, disordini, fallimenti, disoccupazione e si sperava che la epidemia passasse velocemente causando un numero di morti limitati. Per questo motivo si tentava, spesso, di rassicurare la popolazione. Ma anche la componente psicologica ha la sua rilevanza. Secondo studiosi dell’Università dell’Ohio, la negazione non sarebbe altro che una sorta di “meccanismo di difesa”; quando le persone si trovano in periodi di ansia o di stress tendono a sviluppare strategie per proteggere se stesse ed il loro senso di palese insicurezza. Una di queste è il “negare l’esistenza della minacciosa fonte di stress”. Altro concetto è la razionalizzazione che viene applicata quando le persone tendono a diminuire la minaccia portata dalla fonte di ansia; in questo caso le persone tentano  a definire il Covid19 come “un’altra influenza” ammettendone l’esistenza ma riducendo al minimo i suoi effetti dicendo e sottolineando che “non è così grave come dicono tutti”. Attenzione però: senza i meccanismi di difesa saremmo tutti paralizzati, nessuno entrerebbe in auto per paura di incidenti, nessuno investirebbe in Borsa, per cui evitare la paura, il disagio, il terrore, fa sentire bene. Nel breve periodo negare qualcosa di spaventoso ed ineluttabile fa sentire meglio il negazionista, lo fa sentire un super eroe. Non importa, a lui, quanto gravi possano essere le conseguenze a lungo termine del rifiuto perché il beneficio positivo è immediato e rilevante. I social network senza alcun dubbio aiutano. Una volta non c’era la possibilità di fare gruppo con chi la pensava allo stesso modo; oggi i Social Network aiutano a tal scopo e favoriscono questo tipo di approccio perché vi sono gruppi in cui è possibile discutere ed affrontare queste tematiche in un circolo pressoché chiuso in cui chi prova a confutare le affermazioni viene deriso ed eventualmente espulso. Il negazionismo, concludendo, sembra essere quindi il sintomo di una società in cui si assiste sempre più all’esponenziale crescita di impulsi aggressivi nei confronti di coloro che seguono tesi e fonti scientifiche. Aggressività, diniego sono elementi che caratterizzano, purtroppo, la società e che sono fondamentalmente rappresentati dallo strutturarsi di gruppi sociali tra i quali, appunto, i negazionisti.

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Di Antonello De Luca

Ideatore e Caporedattore Ortona (CH) - Italia

Un pensiero su “Il negazionismo da pandemia: fenomeno nuovo o sempre esistito?”
  1. Ottima osservazione, ma mi rattrista comunque vedere che nonostante la storia non abbiamo imparato molto… negare o sminuire può essere un meccanismo di difesa e alzo le mani davanti al pensiero altrui se,e solo se, questo però non invade lo spazio degli altri…non si può essere insultati se rispettiamo le regole di distanziamento ed igieniche (che a mio avviso sono buone regole di educazione a prescindere dalla pandemia)

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